A Copenaghen i leader europei (tranne Orbán) rinnovano a parole il sostegno a Kiev. Ma non decidono nulla

Bruxelles – Altro giorno, altro summit a Copenaghen. Nella capitale danese, blindatissima per timore degli attacchi dei droni russi dal cielo, si è riunita oggi (2 ottobre) per la settima volta la Comunità politica europea (Cpe), il consesso di leader del Vecchio continente – escluse Russia e Bielorussia – che si incontrano ogni sei mesi per discutere delle sfide comuni più urgenti.
Come già nelle precedenti sessioni (l’ultima a Tirana lo scorso maggio), sul tavolo dei capi di Stato e di governo dei 47 Paesi partecipanti – tutti i membri dell’Ue più una ventina di altre nazioni europee – due temi cruciali, inestricabilmente legati. Il sostegno all’Ucraina aggredita da un lato e, dall’altro, la difesa e la sicurezza del Vecchio continente.
La padrona di casa, la premier danese Mette Frederiksen, ha aperto i lavori definendo il “compito importante” cui, dice, sono chiamate le cancellerie: “Dobbiamo rendere la nostra Europa comune così forte che una guerra contro di noi diventi impensabile, e dobbiamo farlo ora”, scandisce affiancata dal presidente del Consiglio europeo, António Costa, e dal leader ucraino Volodymyr Zelensky.
The #EPC is the demonstration of a shared political will.
Those who are in the European Union, those who are not, those who wish to join, and even those who have left – together, we form Europe.
And together, we want to work for peace, development, and the prosperity of our… pic.twitter.com/5O1Dzd3rs3
— António Costa (@eucopresident) October 2, 2025
Frederiksen esorta anche i Paesi più distanti dalla Federazione – come l’Italia di Giorgia Meloni, che si dice scettica sull’iniziativa del “muro di droni” proposto dai vertici comunitari per proteggere le frontiere orientali – a considerare seriamente la minaccia esistenziale posta da Mosca, resa plastica dal moltiplicarsi delle violazioni degli spazi aerei europei nelle ultime settimane. “La Russia ci sta mettendo alla prova più che mai“, ha ribadito, enumerando gli “attacchi ibridi” condotti dal Cremlino anche attraverso la strumentalizzazione dei migranti e le campagne di interferenza elettorale.
Per lei, la guerra scatenata da Vladimir Putin “non ha mai riguardato solo l’Ucraina, ma riguarda l’Europa”. E “dobbiamo muoverci molto più velocemente“, sostiene, per costruire “un’incredibile industria della difesa in appena un paio d’anni” sulla scorta dell’esempio di Kiev. “Ogni euro, dollaro o corona danese che inviamo all’Ucraina è un investimento diretto nella sicurezza europea“, ragiona. Sulla stessa linea, tra gli altri, anche gli interventi del primo ministro britannico Keir Starmer, di quello polacco Donald Tusk e del presidente francese Emmanuel Macron.
Il leader di Varsavia ritiene che sia in corso “un nuovo tipo di guerra, molto complessa” rispetto a quelle del passato. Ma, aggiunge, “è la nostra guerra e se l’Ucraina perde, significa che abbiamo fallito“. Più ottimista l’inquilino dell’Eliseo, che rivendica il “riavvicinamento con gli Stati Uniti” come un successo della coalizione dei volenterosi creata appositamente per fornire a Kiev le garanzie di sicurezza necessarie a mantenere la stabilità nel dopoguerra.
Dal podio della Cpe, Zelensky ha chiesto agli alleati europei nuovi aiuti militari e ha invitato i leader del club a dodici stelle ad accelerare sul 19esimo pacchetto di sanzioni (attualmente in fase di discussione tra i Ventisette) e ad aprire i negoziati di adesione con l’Ucraina e la Moldova, con la cui presidente Maia Sandu si è congratulato dopo la recente vittoria del suo partito alle elezioni.
Il presidente ucraino ha fatto suo l’appello di Donald Trump a smettere di acquistare petrolio russo, sferzando in particolare l’Ungheria di Viktor Orbán. Ma il premier magiaro – che spera di allargare il fronte sovranista in Ue col possibile ritorno al potere del suo alleato Andrej Babiš in Cechia – ha difeso la propria autonomia di decisione sul mix energetico nazionale e ha puntato i piedi per l’ennesima volta contro l’ingresso di Kiev nell’Unione, rispedendo al mittente la proposta di Costa per rivedere le regole sull’apertura dei negoziati coi Paesi candidati, che avrebbe permesso a Bruxelles di aggirare il veto di Budapest.
D’altro canto, il primo ministro ungherese ha evidenziato le divergenze dei partecipanti sull’approccio da tenere nei confronti di Mosca, sostenendo che i leader Ue avrebbero sviluppato “un piano di guerra” anziché uno di pace. Insieme all’omologo belga Bart De Wever, ha guidato l’opposizione all’idea – sostenuta tra gli altri dal cancelliere tedesco Friedrich Merz e definita da Orbán “non molto promettente” – di utilizzare i beni congelati russi come collaterale per le spese di riparazione a vantaggio dell’Ucraina.
Tra gli altri argomenti affrontati dai leader oggi anche sicurezza economica, competitività e gestione dei flussi migratori. Dal lato pratico, come emerso da tempo, la Cpe rappresenta poco più di una passerella, una vetrina per i leader in cui discutere delle sfide comuni più urgenti. Tante chiacchiere – nemmeno troppe, in realtà, data l’assenza di uno dei temi più scottanti dell’attualità, cioè il genocidio perpetrato da Israele (come certificato dall’Onu) ai danni del popolo palestinese – e ben poche azioni concrete.
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